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Homo Scrivens

#Resta a casa

di: Enza D'Esculapio


“…E la radio canta una verità dentro una bugia”.

Venerdì 28 febbraio. Freddino. Al mio rientro ai primi del mese da un viaggio di piacere ho ripreso con frenesia tutte le attività che avevo in calendario. È stato un periodo impegnativo. Lo so, sono âgé, ma son fatta così. Sto bene se mi muovo; curo presentazioni per altri amici autori, un’interessante rassegna letteraria presso una libreria. A tempo perso, si fa per dire, lezioni di italiano, latino, storia e filosofia ai miei nipoti. Vado volentieri ai convegni e poi scribacchio. Cerco di non trascurare nemmeno più di tanto gli amici storici che, poverini loro, spesso si trovano coinvolti nelle mie scorribande da un capo all’altro della città. Quando mi capita dormo.

Ma stasera sono stranamente stanca e devo comunque uscire. Qualcuno dirà: «Ma l’hai scritto tu che sei âgé e allora non ti lamentare, fermati». Resta a casa, mi dice una vocina. Non ho voglia di guidare, ma è lontano e non posso fare diversamente; allora resta a casa benedetta donna, mi ripete la stessa vocina.

Resta a casa? No, non mi piace questo mantra che mi ronza nella testa. E poi proprio stasera non è possibile. Alle 19:30 ho l’ultima presentazione del mio romanzo per questo mese e in libreria mi aspettano. Mi trascino dal divano al bagno, mi guardo allo specchio e mi dico forza, lo sai che poi ti passa non appena cominci a incontrare persone e a chiacchierare. È vero. Doccia, poi trucco, parrucco e si va.

Per strada stranamente non c’è traffico, arrivo prima del previsto. Saluto il libraio, persona amabile e garbata, con il quale scambiamo due chiacchiere sul Coronavirus, questo sconosciuto che tiene tutti con il fiato sospeso già da una settimana e più.

Per ingannare il tempo, con l’amica che farà da moderatrice andiamo in giro per i viali circostanti, ma sono deserti per essere venerdì sera. Agli angoli ci sono sempre frotte di adolescenti che schiamazzano e gruppi di giovani ai tavoli del grande bar all’angolo. Stasera no. Un’atmosfera di silente tristezza ci induce a rientrare in libreria. Nel frattempo la saletta è stata allestita e sopraggiungono la lettrice e la relatrice. Avverto un senso di disagio e la mancanza del pubblico che solitamente segue le iniziative letterarie mi conferma che sarà una serata diversa. Qualcuno, ma proprio qualcuno, arriva. Nell’aria c’era già paura.

Quando ci salutammo non lo sapevamo ancora, ma di lì a pochi giorni saremmo tutti piombati nelle grinfie del Covid 19. Il nostro mondo bloccato in un fermo immagine e il mantra #Resta a casa come unico salvavita.

Aggrediti da questo sconosciuto, in un’alternanza di notizie vere e false, timori e voci di speranze, siamo tutti finiti in un labirinto di incredulità, dolore e smarrimento.

È cominciata così quest’anno la nostra primavera che “brilla nell’aria e per li campi esulta”. Tiepida più che mai, quasi sempre allietata dal sole. L’aria ripulita, il cielo terso, il verde smagliante degli alberi, i versi di uccelli sconosciuti che svolazzano ovunque, il ritorno in alcune città di leprotti, cervi e perfino volpi. Le acque verdi e cristalline diventate piscine per delfini giocherelloni, una luna che illumina le notti come fosse giorno. E che dire di più, siamo ritornati perfino a “riveder le stelle” a occhio nudo.

Il prezzo che abbiamo pagato? Decine di migliaia di morti. Nel frattempo siamo diventati come monadi senza porte e finestre, ciascuno dentro la sua gabbia, dorata o argentata, di ferro o di cartone. Tutti chiusi dentro con il nostro bagaglio sulle spalle. Attese, dolori, tradimenti, sogni, gioie, ansie, paura, amori. Vite sospese, simili ad aquiloni che volteggiano nell’aria, senza sapere dove e quando toccheranno di nuovo un prato su cui posarsi.

E fuori di noi? Le città sembrano cartoline. Tutto tace. A rompere il silenzio il suono delle sirene delle ambulanze; le voci che stentatamente escono dagli scafandri in cui sono celati volti tumefatti, occhi rossi, mani stanche; i motori dei blindati militari che si snodano in un mesto corteo per condurre verso l’ultima meta i corpi di anime uscite dalle pagine della vita senza una carezza, senza una parola tenera di addio.

Silenzio doloroso anche nel Campo 87 del Cimitero Maggiore di Milano, dove ci sono 61 croci con il nome di coloro che il virus ha falcidiato in solitudine. Non fosse comuni come in Brasile o a New York, ma una sepoltura degna di una humanitas profondamente radicata, anche se forse nessuno di quelle salme riceverà mai il conforto di un pianto.

Ecco è una guerra, si dice. Di sicuro è una tragedia, ma la guerra nasce a tavolino, per fredda e lucida razionalità. C’è un nemico, è visibile, è mosso dall’odio. Lo si combatte con le armi, talvolta sgangherate, altre potenti. Si indirizzano i mezzi offensivi verso bersagli precisi e, in guerra per sopravvivere, purtroppo, si è costretti a uccidere l’altro. Mi sembra eccessivo anche il linguaggio bellico, sotteso o esplicito, adottato e non, certo per la prima volta nel nostro paese e non solo. Mi turba e non poco. Forse perché quando le metafore militari diventano predominanti i singoli cittadini e i singoli stati potrebbero ricadere in vecchie tentazioni e sentirsi l’un contro l’altro armati? Ma no, sono fantasie di una reclusa.

Però i due eventi sono assimilabili per alcuni aspetti pragmatici, come le restrizioni delle libertà individuali, gli obblighi di comportamenti imposti dall’alto, le conseguenze disastrose tra cui l’impoverimento delle classi più deboli, la ripresa economica lenta e difficile. Ma non credo si possano mettere sullo stesso piano pandemia e guerra. Il virus non ci conosce, non ci odia. Esso è solo un’entità biologica e da parassita quale è si nutre delle vite altrui, colpisce chiunque e dovunque a sorpresa. Come la guerra lascia morti e danni, certo, ma non c’è volontà, né logica. A ragionar bene, dunque, mi sembrano due fenomeni distanti per la loro essenza profondamente diversa.

Quanti pensieri durante i miei lunghi giorni di solitudine, di straniamento, di esilio dalla lettura e dalla scrittura. Travolta da un tedio interiore sono caduta nel gorgo di un dolore non solo personale, ma collettivo, giocato sul tema del tempo sospeso, per la stragrande maggioranza, non certo per tutti coloro che del qui e ora ne hanno dovuto fare un imperativo per salvare migliaia di vite umane. Il concetto filosofico del tempo sospeso adottato come slogan, a mo’ di grido di battaglia, risuonando e rimbalzando dalle tv ai giornali, ai social, mi ha fatto smarrire nei meandri dei pensieri il senso del tempo narrativo dell’anima di agostiniana memoria. Poi lentamente ho capito che per riemergere dovevo trovare la mia chiave di volta, scegliere «di abitare il tempo» (A. Masullo). E dunque riconformare il mio habitus al tempo e non viceversa. Era questo il tassello che mi era sfuggito

E allora non mi è sembrato più sospeso il tempo delle e- mozioni

… Quando sugli schermi scorrono le immagini dei balconi, da cui si levano le voci che all’unisono vanno da un capo all’altro dello stivale, sulle note dell’inno per la patria dolente. Quando vorresti toccare tutte quelle mani che si protendono le une verso le altre, ma sai che è solo un gioco virtuale. Quando il paniere solidale, alleviando le pene di tanti, diventa il simbolo di una la solidarietà che non sembra più una chimera. E gli sciacalli? Sempre presenti lo so, non sono andati in quarantena. Però ci voglio credere, non ci toglieranno anche il sogno di un cambiamento. Le utopie sono il sale delle trasformazioni epocali. Sta nascendo un mondo nuovo, tutti lo vogliamo e allora ecco che attraverso i social, accomunati e attanagliati dalla paura, sembra possibile. Il mondo cambierà, ripetono pappagalli colorati dagli schermi dei nostri televisori. Vedete quanto amore c’è! Certo. È quello di chi ogni giorno esce ugualmente, sfidando il virus, per permetterci di non rinunciare ai beni primari o per salvaguardare la nostra sicurezza. Certo che c’è amore, quello dei tanti giovani e meno giovani volontari che donano il loro tempo ai più poveri, agli ultimi della società. Certo, c’è amore nelle famiglie. Sempre? Sì, forse. In molte per niente perché le violenze non sono andate in quarantena. Nel suo insieme il paese mi è sembrato come dominato da una sorta di pax augustea, perfino nelle stanze del potere, ma si sa, le paci durano sempre troppo poco.

E c’è ancora un altro tempo da abitare, quasi surreale. Il tempo dell’uomo vestito di bianco che con il suo passo stanco attraversa l’immensa piazza lucida per la pioggia scrosciante di una livida serata di meditazione. Le spalle curve, va da solo a consegnare sull’altare del suo Dio il dolore di un’umanità sofferente e smarrita, mentre rimbombano tuoni e suoni di sirene spiegate. E tu, fermi quell’immagine nella memoria, perché: “Si può anche non credere a niente, ma ci sono dei momenti nella vita in cui si prega il dio del primo tempio che ci sta innanzi”.

C’è il tempo dell’uomo vestito di scuro che in un giorno luminoso con passo sicuro si fa carico delle sorti del paese intero e in solitudine lo consegna su un altro altare, mentre il rombo degli aerei si diffonde nel cielo lasciando scie colorate sulla città eterna.

E poi c’è il tempo del valzer…

…Della mascherina: «Mascherina sì, mascherina no; mascherina così, mascherina cosà». E poi via, tutti in piazza per il gran ballo. Eh, sì. Tutti mascherati. Così ci si nasconde, ci si salva. Ma da chi? Da tutti i parolai televisivi e dai pennivendoli di corte. Da presunti o reali scienziati, che fanno a gara a mettere la bandierina, come si fa nelle scalate. Da amici e da nemici. Da politici e politicanti, da visionari e da mercenari. O forse da noi stessi?

Mi chiedo cosa mai resterà di questo Covid 19, mi piacerebbe che avesse la meglio l’utopia sulla distopia. Magari sarà un segnale questa luna piena di maggio? Più luminosa e vicina che mai, tanto da sembrare quasi curvarsi per baciare la terra dolente, mentre continua a vagare in un tempo senza tempo, nell’universo, insieme a un dio controverso.

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