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Homo Scrivens

Lista: istruzioni per l’uso

Aggiornamento: 29 set 2020


La scelta di usare una lista in letteratura non è mai casuale: è un elemento narrativo che può essere ricco di svariati significati, e questi significati sono così tanti… da poterli enumerare in una lista. In Vertigine della lista Umberto Eco dedica un intero capitolo all’enumerazione caotica “dove ci si compiace di mettere in scena l’assolutamente eterogeneo”. Ma questa eterogeneità, come vedremo, non è in genere fortuita, ma è al servizio dello scrittore, e ci dice cose importanti. L’autore che usa una lista deve, infatti, a mio avviso avere chiaro almeno due elementi: da un lato lo scopo per cui vuole inserirla all’interno della sua opera e, in secondo luogo, l’insidia di trasformare la lista in “lista della lavandaia”, il che comporta la necessità di adottare tutti i possibili espedienti narrativi per renderla vivace, godibile per il lettore, un punto di forza della narrazione e non di debolezza. Così Carlo Emilio Gadda ci racconta casa Cavenaghi in L’Adalgisa, un’opera particolarmente interessante per chi voglia approfondire il tema della lista, in quanto può essere considerato il romanzo di enumerazioni per antonomasia.

“In un battibaleno avevano bell’e che messo a soqquadro tutta la casa: seggiole, cuscini, tavolini, lettini, la chincaglieria del salotto e il bazar del salone e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli) e i comò e il canapè e il cavallo a dondolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Cavenaghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, Lari, leonesse, orologio a pendolo, vasi di ciliegie sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantù della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica.”

Caos o racconto di una famiglia, di una condizione sociale, di un mondo intero, in definitiva? Si rintracciano gli indizi che generano un quadro di vita, c’è un certo Luciano, c’è una nonna, c’è un bisnonno illustre, c’è un notevole benessere economico testimoniato dalla presenza di un salotto e di un salone. Ma quelle castagne secche nei vecchi orinatoi? Di cosa ci parlano? Di stravaganza, di quella certa “demenza domestica” o di cosa? Vien voglia di continuare a leggere. Il caos e la dissonanza tra elementi ovviamente congiunti e elementi del tutto divergenti invita a porci delle domande, e a cercare delle risposte nelle pagine successive. L’efficacia del risultato rispetto all’intento dell’autore non ha bisogno di alcun commento. Ma penso che valga la pensa soffermarci sulle modalità con cui questa lista caotica è stata costruita, e di quali elementi la rendono così vivace, e stimolante, direi, per il lettore. Ci troviamo in primo luogo non solo a leggere un elenco di oggetti: si evocano altri sensi nel lettore, oltre quello più ovvio della vista. Le unghie della pelle d’orso, che gracchiano sul pavimento, un piccolo rimando al gusto, con quei barattoli di ciliegie sotto spirito, ma è soprattutto il movimento che regala a questa lista vivacità e fascino e mantiene alta l’attenzione del lettore. I passi che pestano le unghie dell’orso, il busto del bisnonno “eternamente pericolante”, le “le batterie di pantofole snidate da sotto i letti”. Tutto questo movimento fa sì che la descrizione di casa Cavenaghi si trasformi in una ripresa cinematografica più che in una fotografia. Le suppellettili e gli elementi di arredo apparentemente immobili si animano di tratti sensoriali e dinamici. Non si racconta una casa, si racconta una dinamica di vita.

Ma cambiamo epoca, e cambiamo continente.

“Ho visto un sacco di navi bianche veramente enormi. Ho visto frotte di pesciolini con le pinne luccicanti. Ho visto un parrucchino in testa a un ragazzino di tredici anni. Ho visto la costa settentrionale della Giamaica. Ho visto e ho sentito la puzza di tutti i 145 gatti che vivono nella villa di Ernest Hemingway a Key West in Florida. Ora conosco la differenza tra Bingo e Superbingo. Ho visto videocamere che praticamente richiedevano una carrello. Ho visto valige fosforescenti e occhiali da sole fosforescenti con cordicelle fosforescenti e più di venti tipi di ciabatte infradito. Ho sentito tamburi da banda di paese e ho mangiato frittelle di sgombro e ho visto una donna in lamé argentato che vomitava a getto dentro un ascensore di vetro. Ho tenuto il ritmo di due quarti puntando il dito verso il cielo esattamente sulla stessa disco music sulla quale odiavo puntare il dito verso il cielo nel 1977”. Questo è un breve stralcio del lungo elenco di elementi che descrive la vita di crociera in Una cosa divertente che non farò mai più, l’esilarante reportage di David Foster Wallace. Anche qui l’elenco è al servizio dell’intenzione dell’autore: la grande varietà di ingredienti racconta efficacemente il caotico universo della crociera. Stimoli differenti che si susseguono, si accavallano sovraffollando le capacità percettive del crocierista. Nella prima pagina del libro è proprio così che lo scrittore definisce la sua esperienza crocieristica: “un puzzle ipnotico-sensoriale”. Anche qui troviamo stimoli per tutti i nostri sensi, dal gusto delle frittelle di sgombro alla puzza dei 145 gatti. Ma quello che mi sembra molto originale di questa lista, e che, a mio avviso, la rende straordinariamente dinamica, è la dimensione temporale. Dal passato della lunga serie di “ho visto” si passa bruscamente al presente: “ora conosco la differenza tra Bingo e Superbingo”. E più avanti abbiamo a sorpresa un flash-back: “Ho tenuto il ritmo di due quarti puntando il dito verso il cielo esattamente sulla stessa disco music sulla quale odiavo puntare il dito verso il cielo nel 1977”. Personalmente, annoiarmi con le liste di Foster Wallace è impossibile. Anche io, nella mia modestissima esperienza di scrittrice, ho utilizzato delle liste. Nel mio primo romanzo Solo Nina parlo dei partecipanti alla grande festa organizzata da Blanca Ortega così: “Si incontravano registi emergenti e attori esordienti, qualche ricco rappresentante della buona società di Barcellona, possibile cliente dell’atelier per futuri importanti matrimoni di figlie o nipoti, diverse coppie di amici napoletani di Blanca, trasferiti da anni in Spagna, con cui lei condivideva la passione per lo scopone scientifico, un certo numero di modelle anoressiche, uno o più giovani esponenti di partiti politici minori, rigorosamente di sinistra, poetesse afflitte da inguaribili patologie depressive, almeno due attrici che avevano lavorato con Almodovar, un paio di allampanati inglesi, che provenivano dal mondo della musica pop, arrangiatori, musicisti o coreografi. Ma c’era anche un ballerino di danza classica cubano, una piccola schiera di attori e attrici di teatro d’avanguardia, almeno uno psicoterapeuta di successo, un pittore, un architetto o un compositore, giovane e squattrinato, in cerca di notorietà, che Blanca aveva preso in simpatia, un violoncellista dell’Europa orientale, che nel corso della serata avrebbe suonato qualcosa nel disinteresse generale, qualche rappresentante infervorato di un’associazione animalista, o ecologista, un critico d’arte, un astrologo e un paio di scrittrici iraniane fuggite in occidente”. La lista racconta la tipica confusione di una festa, dove un’umanità variegata si ritrova in una sala. L’affollamento solipsistico di un cocktail party all’americana, che abbiamo imparato a conoscere dalla cinematografia e che qui ho cercato di ricreare attraverso la scrittura. Ma quello che più mi interessava era raccontare la personalità della padrona di casa attraverso le caratteristiche dei suoi invitati. Blanca Ortega, una donna dalla personalità ridondante come le sue feste. Contraddittoria, spregiudicata e sfaccettata. Donna d’affari e al tempo mecenate, appassionata di moda e di arti al tempo stesso. La sua totale mancanza di rigore morale la lascia libera di attorniarsi di ogni tipo di persona. Qualcuno trova da dire? Blanca semplicemente non se ne cura. È così sicura di sé da accogliere nel suo salotto la destra e la sinistra, l’establishment e il dissenso. Protettrice di artisti e giocatrice di scopone scientifico. È curiosa di tutto quello che c’è al mondo, dall’astrologia alla poesia. Forse crede che circondandosi di tante differenti intelligenze, di tanti talenti, li ingloberà nel suo ego megalomanico espandendolo a dismisura. Ho cercato così di rispondere, con l’artifizio letterario della lista, all’imperativo categorico dello show don’t tell, rifacendomi all’antico adagio: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.


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